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Le recensioni che abbiamo scritto su alcuni film

Arriaga vs Iñárritu: Sceneggiatore vs Regista

Chi fa il film? Lo sceneggiatore o il regista? Quanto è importante “la storia” in un film?

 

L’esordio alla regia dello sceneggiatore di Iñárritu, The burning plain, non solo non ha nulla da invidiare a 21 grammi e Babel, ma riesce a mio parere a superarli.

 

I bravissimi attori diretti da Arriaga (in particolare la Theron, perfetta in questa parte) danno vita a personaggi completi che non sono né buoni né cattivi ma solo umani; con il sostanzioso aiuto della fotografia di Robert Elswit (Magnolia e premio Oscar per il Petroliere),  il regista crea un ambiente reale in cui vivono personaggi che non danno l’idea di essere stati creati apposta per il film, ma che lasciano intravedere un passato e un futuro al di fuori di esso.

 

Le 4 storie di The burning plain si intrecciano alla perfezione, non hanno bisogno di virtuosismi registici per integrarsi in unico film, e non potrebbero essere raccontate in un diverso ordine. Gli stessi collegamenti tra esse sono saldi, molto più di quanto lo siano nei film precedenti.

 

La complicata costruzione temporale che caratterizza le sceneggiature di Arriaga non sembra, in questo film, fatta apposta per stordire o stupire lo spettatore ma piuttosto per far sì che egli scopra i personaggi a poco a poco. Il senso di vuoto di Sylvia è chiaro già dalla prima scena, basta notare i colori gelidi che caratterizzano ogni inquadratura del film in cui il personaggio è presente. Ma solo dopo aver capito che Sylvia è Mariana diventata adulta riusciamo a comprendere la vera essenza del personaggio e la sua solitudine.

 

Quest’ultimo tema, la solitudine, è presente in tutte le sceneggiature scritte da Arriaga: in Babel è Kikuchi, la ragazzina giapponese trascurata dal padre, il personaggio che ne soffre di più, mentre in 21 grammi è Christina, che ha perso il marito. Questo stato d’animo è spesso sottolineato anche da una diversa ambientazione  in cui si svolge la vita stessa dei personaggi: Tokio e Portland contrastano violentemente con i colori caldi del Messico o del New Mexico.

 

Ma in The burning plain la solitudine diventa davvero il tema centrale: tutti i personaggi ne sono pervasi, anche solo per il fatto che hanno qualche grave segreto da nascondere: il passato, il matricidio, la gravidanza, la relazione extraconiugale, l’innamoramento per la figlia di chi ha distrutto la propria famiglia, ecc…

 

Scompare invece quello che era il tema ricorrente delle storie precedenti: l’ “effetto farfalla” , secondo cui una piccola variazione qui può creare enormi sconvolgimenti dall’altra parte del pianeta. Nessuno potrebbe immaginare che il dono di un fucile da parte di un uomo d’affari giapponese a una guida marocchina possa dopo dieci anni avere impatto sulla vita di una famiglia americana mettendo in pericolo, indirettamente o meno, la vita di tutti i suoi componenti.

 

Al contrario nel film diretto da Arriaga non è il destino o il caso che governa le vite dei personaggi, ma sono loro stessi gli artefici del loro destino. Non sono solo i poveri o i buoni ad essere condannati a pagare per le proprie azioni come la famiglia marocchina o la tata messicana in Babel.

 

Rispetto alle storie precedenti spariscono i luoghi comuni sui turisti americani che quantificano tutto in dollari, compreso l’aiuto spontaneo di un essere umano, o sulla difficoltà di comunicazione tra cultura occidentale e cultura orientale, o tra persone di diverse estrazioni sociali.

La regia di Arriaga è quasi “invisibile” e nel complesso molto più naturale di quella di Iñárritu che in certi momenti è talmente curata da risultare quasi ostentata: guardando questo film viene da pensare che quando regista e sceneggiatore sono la stessa persona, e quando questa persona è Arriaga, sia la storia la vera essenza del film, e la regia solo uno strumento per esprimerla.

 

“Un film senza storia è come fare una casa senza mura” afferma Gordon, il produttore del film nel film de Lo stato delle cose di Wim Wenders. Non credo sia possibile sostenere o confutare questa obiezione senza sconfinare in infiniti dibattiti che potrebbero riempire interi volumi, ma per concludere potremmo ipotizzare l’esistenza, se mi consentite la semplificazione, di un cinema “di regia” e uno “di sceneggiatura”. Se così fosse quello di Arriaga sarebbe senza dubbio un ottimo esempio di cinema “di sceneggiatura” in cui la regia è a servizio di una sceneggiatura ad incastro perfetto: alla luce di queste riflessioni per quanto riguarda il caso Iñárritu/Arriaga credo di poter affermare che sia senza dubbio lo sceneggiatore a fare il film.