W imię… Storia d’Amore o di Peccato

W imię… è un film difficile da giudicare: passa dalla telecamera a mano in stile dogma-nordico-minimalista a luci mistiche al limite del calligrafico, affronta una realtà pesante con un linguaggio filmico adeguato, ma ha sporadiche vaghe tendenze al melodramma. In certi momenti vi si inseriscono addirittura elementi che sembrano usciti fuori da una di quelle commedie irriverenti basate sui luoghi comuni anticlericali e non.

 

I dialoghi sono minimali, le riprese sembrano fatte attraverso una cortina di umidità, in una di quelle afose giornate di agosto che preannunciano una pioggia che non arriva mai.

 

La fotografia un po’ sporca e tendente al giallo ricorda a tratti un western, il che non è sbagliato in un film che è tutto decisamente al maschile. Le atmosfere sono quasi sempre poco nitide, come fossero viste attraverso lo sguardo confuso del protagonista, o come ad avvisarci che quello che vediamo ha contorni tutt’altro che definiti.

 

Se fosse stato un film di Almodovar sarebbe stato parlatissimo, e l’avremmo preso sul ridere. Se fosse stato un film d’amore sarebbe finito qualche minuto prima, ovvero quando Adam se ne va dalla parrocchia, lasciandoci lì a chiederci quanto un Peccato sia veramente un peccato nel momento in cui viene soltanto pensato e non compiuto.

 

Se fosse stato un film drammatico che racconta il declino di un uomo che fino ad ora è stato buono, avremmo saputo che la confessione di Adam, il prete, al videotelefono con la sorella sarebbe stata dettata da un improvviso desiderio di autodistruzione che piano piano, con l’aiuto dell’alcohol, avrebbe tirato fuori dal personaggio il peggio di sé.

 

Ma poi ci rendiamo conto che il film non segue nessuno di questi schemi.

 

Adam è un prete che costruisce una comunità di accoglienza per ragazzi che hanno bisogno di aiuto. È appena arrivato e il suo passato è misterioso. Va a correre tutti i giorni nel bosco, e solo dopo veniamo a sapere che probabilmente per lui la corsa è una forma di penitenza. Penitenza per cosa? Per i suoi pensieri, che non sono consoni al suo ruolo.

 

Ad un tratto, come sempre accade in questi casi, sembra che tutto quello che succede intorno sia un tentazione creata apposta per lui, e che “il destino” voglia portarlo a qualcosa di ben determinato, un po’ come accade quando uno vuole smettere di bere e tutti intorno parlano solo di alcohol. Małgorzata Szumowska, d’altra parte, è allieva di Wojciech Jerzy Has.

 

Un ragazzo in confessione gli confida i suoi dubbi sulla sua sessualità, Adam gli dà come penitenza il compito di correre un ora al giorno per espiare i pensieri e gli atti impuri, e poco dopo lo vede in atteggiamento inequivocabile insieme ad Adrian, il “cattivo” del gruppo. Per non pensare a ciò che ha visto, e che l’ha turbato per motivi diversi da quelli per cui avrebbe dovuto turbarlo, Adam si ubriaca in segreto.

 

Lukasz, il suo preferito, va a casa sua a farsi curare dopo una rissa e innocentemente si addormenta addosso a lui, e poi lo attira in un altrettanto innocente inseguimento in un campo di granoturco che lo riporta ad uno stato primitivo. Lukasz non sa nuotare, e sceglie Adam per farselo insegnare in una scena in cui l’acqua perde il suo senso di purificazione, diventando piuttosto un elemento di incoraggiamento al Peccato e spingendo i due ad un, ancora, innocente contatto fisico. Il cappio si stringe attorno al collo di Adam.

 

Questo film, che ha un prologo in stile Il mucchio selvaggio e inizia come un film su uno dei missionari di Susan Beer, diventa una specie di Il sospetto di Vinterberg al contrario, perché il Peccato c’è, ma nessuno ci vuole credere: il vescovo sembra non mettere in dubbio la sua fede nemmeno per un momento (o forse vuole insabbiare la cosa?). Chi lo denuncia non è davvero convinto di quello che fa, alla fine si sente in colpa per averlo allontanato e il suo addio affettuoso è sincero. E non lo crede la sorella, durante la confessione al videotelefono, quando Adam le dice: “Che ci posso fare se mi piacciono i ragazzi”, e lei gli risponde: “Sei una brava persona.”.

 

Non ci crede nemmeno lo spettatore, anche perché, negli ultimi minuti del film, quando finalmente il Peccato si compie davanti ai suoi occhi, non ha la faccia di un peccato, ma del coronamento di una storia d’amore.

               

Il fatto è che Adam, e ciò probabilmente è dovuto, oltre che al volere della regista, all’attore che lo incarna, è troppo umano, e il suo sguardo è troppo limpido perché lo spettatore non si ritrovi a difenderlo involontariamente fino all’ultimo, a stare dalla sua parte e a comprenderne il desiderio di affetto e calore.

 

Lukasz è un ragazzo che vive in una situazione degradata. Non è cattivo, e anche nei suoi occhi si legge una grande purezza e innocenza. Non parla mai ma guarda, con occhi che dicono più di tante parole e, soprattutto, con occhi che sembrano sapere e capire tutto quello che gli altri non sanno e non capiscono. Non conosciamo esattamente la sua età, con i suoi capelli lunghi e sembra un giovane Cristo trasferito in Polonia.

 

Si prende cura dei suoi fratelli, soprattutto di quello grande, ritardato e vessato dagli altri ragazzi del villaggio. La prima persona che, invece, si prende cura di lui è Adam. Ciò che spinge Lukasz verso Adam è quindi l’ammirazione, la riconoscenza, che lo portano a volere con tutto se stesso cancellare la tristezza di fondo di Adam. Perché nonostante la sua innocenza Lukasz, che la regista dota di una specie di valenza divina a cui nel film si allude in diversi modi, sa esattamente di cosa ha bisogno Adam per essere felice.

 

E così dopo il trasferimento di Adam in un’altra parrocchia (o l’abbandono dei voti?), come nel più leggero dei film romantici Lukasz si presenta a casa di Adam, fradicio sotto una pioggia scrosciante, e finalmente si avvera ciò che per tutto il film viene anticipato, ma che mai abbiamo davvero creduto che potesse accadere, anche in una storia di finzione.

 

Intendo dire che potesse accadere così, in questo modo, come se si trattasse davvero di una storia d’amore pura e lecita. E ci sembra quasi un epilogo normale, una storia a lieto fine. Forse perché Lukasz non sembra così giovane come il suo personaggio dovrebbe essere, o forse perché sembra sapere quello che vuole meglio del prete.

 

Ma noi ci dimentichiamo una cosa fondamentale: il ragazzo è più giovane di almeno vent’anni, se non di più. Non solo, non parla per tutto il film, viene presentato come un ragazzo che gli altri chiamano “Zucca” e che ha dei problemi, si trova giusto sul limite della normalità e l’anno prima ha dato fuoco a un fienile (e lo fa di nuovo, quando mandano via Adam dalla parrocchia). E Adam, oltre al fatto che è un prete, nella comunità ha un ruolo pari a quello di un insegnante o del sostituto di un genitore.

 

La regista nel ricevere il premio afferma che il suo film è una storia d’amore e che “tolleranza” per lei significa che ciascuno ha il diritto di amare, poiché ci sono paesi in cui non c’è ancora questo diritto, e tra questi Paesi c’è la Polonia. Afferma che per lei questo premio è estremamente importante in quanto spera che possa aprire il dibattito e far cambiare le cose nel suo paese.

 

Ma se anche volessimo lasciar stare le disquisizioni sulla giustizia o meno del celibato per i preti, e ci concentrassimo solo sul tema dell’omosessualità, resta il problema del tipo di relazione che c’è tra i due: relazione che non è esattamente la relazione “alla pari” che dovrebbe rappresentare il requisito fondamentale per poter parlare di storia d’amore, e quindi di diritto di amare, omosessualità eccetera eccetera… qui questo presupposto fondamentale manca. Bisogna anche tener conto del fatto che Adam ha anche dei trascorsi non troppo chiari che hanno già gettato su di lui sospetti di pedofilia.

 

Il film è stato premiato con il Teddy Award [1] a Berlino come “Un film visivamente potente che osa sfidare gli stereotipi dell’omosessualità contrapposta alla religione con una storia personale, raccontata in un modo profondamente umano” [2]. Sul fatto che sia visivamente potente sono certamente d’accordo, gli stereotipi li sfida di sicuro e il modo di raccontare è umano.

 

Ma non capisco il ragionamento secondo cui è stato votato per questo premio, perché il Teddy Award  dovrebbe incoraggiare la tolleranza verso l’omosessualità, e secondo me è un po’ controproducente metterci in mezzo anche la chiesa e un storia d’amore che ha troppi riferimenti, troppe attinenze con il tema più scottante che riguarda la chiesa, ovvero la pedofilia.

 

Rischia di instillare dei seri dubbi anche in chi è assolutamente tollerante, oltre al fatto che la categoria stessa, dando risalto a questo film che in qualche modo associa in maniera indissolubile omosessualità e pedofilia, rischia “autoghettizzarsi” irrimediabilmente.

 

Bisogna dire che la regista è davvero bravissima, altrimenti non sarebbe riuscita a creare un tale livello di immedesimazione ed empatia in un personaggio che alla fine si rivela così controverso, e infatti il film di fatto è un bel film, a parte qualche scivolatina verso il Kitsch. I personaggi sono davvero ritratti in modo umano e vero, per non parlare degli attori, che sono bravissimi.

 

Ma questo obiettivo, perseguito così sistematicamente dalla regista, di mantenere Adam così puro e cristallino, privo di qualunque colpa fino all’ultimo, è davvero tendenzioso: Adam non fa che fare del bene: ha costruito lui la comunità per salvare i ragazzi da ambienti che li rovinerebbero per sempre, regala il suo divano ai vicini che non sanno dove dormire, gioca a calcio, è comprensivo, aiuta i ragazzi anche nei lavori più pesanti.

 

Quando va via in auto esita ma non si ferma a salutare Lukasz, per non rischiare di cedere alla tentazione. Sarà Lukasz a rincorrerlo, e a ritrovarlo tempo dopo. Sembra che la regista voglia sollevare Adam dalla responsabilità del Peccato commesso, e farla pesare tutta su Lukasz. Ma questo non si può fare, perché Lukasz è in una posizione di inferiorità, oltre che anagrafica, anche sociale e culturale.

 

Il gioco di Małgorzata Szumowska, secondo me, è un po’ troppo sleale, scorretto. E’ come se manipolasse l’immedesimazione dello spettatore, portandolo ad avvallare, ad accettare una situazione che non è accettabile, con un meccanismo, detto con le dovute distanze, Hanekiano.

 

Infatti, il far immedesimare uno spettatore in un prete che si innamora di un ragazzo al limite della normalità, e che alla fine rende concreto questo amore anche in senso fisico, potrebbe anche andare bene, se fosse considerabile come un gioco, come un esperimento in cui si lascia allo spettatore il giudizio.

 

Ma il problema del film è che si prende troppo sul serio, e che Małgorzata Szumowska non lascia il giudizio allo spettatore ma lo dà lei, e in modo anche abbastanza marcato: per lei si tratta comunque di una storia d’amore lecita e pura.

 

La regista finisce il film con una scena in cui Lukasz, che a quanto pare è entrato in seminario, guarda con un sorriso verso la telecamera… a chi sta sorridendo? A noi, per dirci “guardate, sono diventato un prete”? Oppure la ripresa è una soggettiva di Adam? E allora cosa significherebbe? E’ un auspicio per un futuro in cui sarà permesso agli uomini di chiesa di rinunciare al celibato oppure significa che i due continueranno ad essere preti, tenendo nascosta la loro relazione?

 

Sia quel che sia, l’impressione che si ha quando si esce dal cinema è di aver visto qualcosa di bello, la storia lascia il gusto che lascerebbe una storia d’amore che finisce bene: l’amore trionfa.

 

Se ragioniamo a mente fredda, invece, dovremmo pensare che l’unica presa di posizione corretta nel film è quella di Adrian il “cattivo”, che forse è l’unico normale, quando lancia la carriola contro Adam e Lukasz, o quando rifiuta di confessarsi con Adam e gli chiede in modo aggressivo e provocatorio quale sia la vera ragione per cui si occupa di quei ragazzi.

 



[1] https://news.teddyaward.tv/en/aboutteddy/teddy_2012/ (come visualizzato a Maggio 2013): - Malgoska Szumowska's visually powerful film W IMIĘ... (IN THE NAME OF...) from the Berlinale section Competition dares to challenge the stereotypes of homosexuality versus religion with a personal story told in a deeply humane way.

[2] Dal sito della Berlinale https://www.berlinale.de (come visualizzato a Maggio 2013): Małgośka Szumowska’s visually powerful film, charged with striking imagery from Christ’s Passion, dares to broach the still taboo topic of homosexuality in the priesthood.