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FESTIWAL FILMOWY W GDYNY

41° edizione del Festival del cinema di Gdynia del 2016

Settembre a Gdynia secondo la nostra esperienza è mite e caratterizzato da giornate ventilate, tiepide e limpidissime. Il mare è calmo e viene voglia di buttarcisi dentro. Quest’anno, invece, il tempo era variabile e capriccioso, quasi come premonizione di quanto sarebbe accaduto da lì a un paio di settimane: il 9 ottobre, infatti, il cinema perde uno dei suoi maggiori esponenti: Andrzej Wajda. Il regista, che aveva compiuto 90 anni quest’anno in primavera, ci ha onorato della sua presenza nel quarto giorno del festival con una serata ad inviti seguita da un rinfresco. In tale occasione ha presentato Powidoki, il suo ultimo film, non in concorso. Il ricordo di questo Festival, quindi, col senno del poi è guastato da questo triste evento.

 

Per il resto, il Festival del cinema di Gdynia ha regalato il suo premio alla carriera ad un altro regista che ha fatto la storia del cinema polacco, Janusz Majewski. Già l’anno scorso era presente a Gdynia con il suo ultimo film, leggero e musicale, Excentrycy, czyli po słonecznej stronie ulicy (in italiano: Eccentrici, ovvero dalla parte soleggiata della strada) e per la proiezione nella sezione “Classico puro” del suo Lekcja martwego języka (in italiano: lezione di una lingua morta) del 1979. Quest’anno ha avuto luogo la proiezione speciale del suo bellissimo film Zazdrość i medycyna (in italiano: Gelosia e medicina) del 1973.

 

Tra le proiezioni speciali al Centro Cinematografico di Gdynia, spiccano Pokolenie di Janusz Zaorski, un bel collage di tutti i più famosi film prodotti dagli studi cinematografici di Breslavia, e il documentario di Andrzej Wajda Wróblewski według Wajdy (in italiano: Wróblewski secondo Wajda). Quest’ultimo ritrae la vita del pittore che più ha influenzato l’attività artistica di Wajda a partire dagli ’40, personaggio su cui il regista per vari motivi non è riuscito a girare un film di finzione, ripiegando sulla figura di Władysław Strzemiński che poi ha dato vita a Powidoki.

 

Questa edizione del festival sembra aver rivolto la sua attenzione al mondo della pittura: Oltre Powidoki e Wróblewski według Wajdy esce sugli schermi la pellicola Ostatnia Rodzina, attesissima, la cui proiezione al Teatr Muzyczny per gli accreditati è stata ripetuta una seconda volta a causa del troppo afflusso di pubblico. Ostatnia Rodzina è stato girato dal giovanissimo Jan P. Matuszynski al suo debutto nel cinema di finzione. Nel cast spicca il grande Andrzej Seweryn e il bravissimo Dawid Ogrodnik, pluripremiato per il suo ruolo in Chce się żyć del 2013, uscito in Italia col titolo Io sono Matteo. Il film vince diversi premi ma è comunque battuto da Zjednoczone stany miłości di Tomasz Wasilewski, vincitore dell'Orso d'Argento a Berlino per la sceneggiatura, meritato o meno che sia.

 

Non manca una parziale retrospettiva su Andrzej Żuławski, altra perdita incolmabile per il cinema mondiale[1], nell’ambito della quale viene proiettato il suo meraviglioso film Kosmos, dall’omonimo romanzo di Witold Gombrowicz, testamento del regista terminato poco prima di morire. La sera al cinema all’aperto sulle sdraio del Centro Cinematografico è stato possibile gustarsi la versione restaurata di tutto il Decalogo di Kieślowski, due episodi a sera. Si contano poi alcuni film per la sezione “Tesori del cinema prebellico” e viene dato come sempre molto spazio al cinema giovane e al cinema indipendente con le sezioni “Altro sguardo” e “Concorso cinema giovane”.

 

In concorso da segnalare senza dubbio sono Zaćma (in italiano: Cataratta), del regista Ryszard Bugajski, e il bellissimo e finalmente maturo Wołyń di Wojciech Smarzowski: anche quest’ultimo, nella proiezione ufficiale al Teatr Muzyczny, ha lasciato fuori vari spettatori infuriati e ha reso necessaria una proiezione supplementare.



[1] Andrzej Żuławski è scomparso il 17 febbraio 2016.

 

 

I premi ufficiali dell'anno 2016

Premio Film vincitore ufficiale Artista
Leone d’oro Ostatnia Rodzina Jan P. Matuszyński
Leone d’argento Jestem mordercą Maciej Pieprzyca
Premio speciale della giuria Czerwony pająk Marcin Koszałka
Regia Zjednoczone stany miłości Tomasz Wasilewski
Sceneggiatura Jestem mordercą Maciej Pieprzyca
Fotografia Wołyń Piotr Sobociński
Scenografia Szczęście świata Tomasz Bartczak, Andrzej Kowalczyk
Costumi Zjednoczone stany miłości Monika Kaleta
Musica Szczęście świata Motion Trio
Suono Na granicy Kacper Habisiak, Marcin Kasiński, Mateusz Adamczyk
Montaggio Zjednoczone stany miłości Beata Walentowska
Caratterizzazione Wołyń Ewa Drobiec
Protagonista femminile Ostatnia Rodzina Aleksandra Konieczna
Protagonista maschile Ostatnia Rodzina Andrzej Seweryn
Ruolo secondario femminile Zjednoczone stany miłości Dorota Kolak
Ruolo secondario maschile Zjednoczone stany miłości Łukasz Simlat
Debutto alla regia Plac Zabaw Bartosz M. Kowalski
Attrice debuttante Wołyń Michalina Łabacz

 

22 settembre 2016 - Anteprima di Powidoki al Festival di Gdynia[1]


Regia: Andrzej Wajda

 

Terzo giorno del festival di Gdynia ore 19.00 al Teatr Muzyczny di Gdynia: la sala è gremita. Sta per cominciare la proiezione speciale di Afterimages (Titolo originale Powidoki), l’ultimo film di Andrzej Wajda, seguita da un brindisi per il suo novantesimo compleanno. Ed ecco che sul palco appare lui, in carne ed ossa, la storia del cinema polacco! Dal realismo socialista alla caduta del muro… fino ad arrivare agli anni in cui i muri si ricostruiscono.

 

Viene fatto accomodare su un vero e proprio trono di velluto rosso. È sorridente e sereno, e ha quelle sue mani lunghe e bianche che spiccano in tante sue foto scattate sul set. Vicino a lui ci sono molti dei suoi attori: la prima che notiamo è Maja Komorowska, ormai anziana ma bellissima, con un sorriso solare che non è per nulla diverso da quello che aveva in Le signorine di Wilko[2]. E’ alta ed elegante, con i capelli raccolti… l’ultima volta che l’abbiamo vista era sul palco del Teatr Dramatyczny, nella sala Halina Mikołajska, che si trova in cima a una scala ripida ad un piano alto del Palazzo della Cultura a Varsavia. Recitava in Giorni felici di Beckett, con la regia di Antoni Libera. I suoi capelli erano quindi spettinati e crespi, così come richiede il ruolo, ma non toglievano nulla alla sua bellezza e intensità. Le danno un microfono ma non parla molto, la sua voce è un po’ tremolante, ma non perde la sua unicità.

 

Il più pazzoide è Robert Więckiewicz, protagonista del film precedente di Wajda Walesa, l’uomo della speranza. L’attore parla a scatti, velocissimo e fa un sacco di battute. Visto dal vero sembra molto carismatico, anche senza i baffoni di Walesa, e vedendolo si capisce quanto abbia fatto suo questo personaggio. Non può mancare Andrzej Seweryn, scelto da Wajda per molti film tra cui Terra Promessa, L’uomo di marmo, L’uomo di ferro, e Senza anestesia. Si trova qui per la presentazione del suo ultimo film Ostatnia Rodzina, diretto da Jan P. Matuszyński, uno dei film più attesi del festival di quest’anno insieme a Wołyń di Wojciech Smarzowski.

 

Tra il pubblico c’è anche Andrzej Chyra ed è stilosissimo, con i suoi occhiali rettangolari dalla montatura spessa e i capelli corti sembra molto più giovane di quanto non fosse l’anno scorso in 11 minut di Jerzy Skolimowski o due anni fa quando si trovava qui a Gdynia per il bellisimo fiml Obietnica. Lui con Wajda ha girato Katyń.

 

Ospite d’onore, ovviamente al secondo posto rispetto al leggendario regista, è l’attore protagonista del film di stasera Bogusław Linda. E’ molto distinto e anche lui, come Więckiewicz, non è avaro di battute. Chiede persino scusa a Wajda del fatto di non essere Daniel Olbrychski. Wajda scoppia a ridere: Olbrychski, dopo la tragica morte di Zbigniew Cybulski, diventa infatti il suo attore feticcio: lo vediamo sprizzante di bellezza e giovinezza in film come Tutto in vendita, Ceneri sulla grande armata, Le signorine di Wilko e Terra promessa nel ruolo di protagonista. Stasera è assente.

 

Andrzej Wajda saluta e si complimenta con tutti gli attori, in particolare con la più giovane del cast, Bronisława Zamachowska, figlia d’arte del mitico attore Zbigniew Zamachowski e che ricopre il ruolo di coprotagonista al fianco di Bogusław Linda in Afterimages. Film che, senza dubbio, si rivela assolutamente degno del suo autore, che con gli anni non ha minimamente perso la capacità pittorica di ritagliare e comporre le inquadrature, aiutato dal geniale direttore della fotografia Paweł Edelman. Quest’ultimo è presente con gli altri sul palco e affianca il Nostro già dai tempi del Pan Tadeusz (1999); è famoso per aver diretto la fotografia de Il Pianista e di molti altri film di Roman Polański.

 

Bisogna dire che Wajda non ha perso assolutamente la sua capacità di dirigere gli attori in modo magistrale. Iniziamo dal navigato Bogusław Linda: incarna il protagonista, il pittore di avanguardia Władysław Strzemiński. Questi era stato ferito gravemente durante la prima guerra mondiale e Linda sembra aver avuto un braccio e una gamba soli per tutta la vita, tanto si muove in modo disinvolto nei suoi panni.

 

Sullo schermo dimostra almeno dieci anni in più di quanto non faccia dal vero, nonostante sembri quasi privo di trucco: insomma, niente rughe come quelle della santa di La grande bellezza e bando ai ceroni spessi un dito di Toni Servillo. Tutto è frutto della recitazione di Linda e della maestria registica di Wajda: nonostante le sfortunate circostanze in cui si trova il personaggio e i suoi problemi fisici, il suo carisma è di tale impatto, che quando la sua bellissima e giovane studentessa gli confessa di essere innamorata di lui il pubblico non stenta a crederlo.

 

Ma la migliore rivelazione è l’adorabile, giovanissima e timida Bronisława Zamachowska, che sul grande schermo riesce ad apparire così risoluta da sembrare molto più matura dei suoi 14 anni, nonostante abbia uno sguardo così innocente, limpido e disarmante. Fra il pubblico stringiamo la mano a suo padre Zbigniew, altra leggenda del cinema polacco, protagonista, per fare un esempio, di Film Bianco di Krzysztof Kieślowski. Si trova al brindisi per mano con la sua nuova moglie Monika, che lui ci presenta subito, e che scopriamo essere una giornalista.

 

Bronisława Zamachowska interpreta la figlia del protagonista. La ragazzina è l’unica persona che si occupa di lui, gli fa da mangiare e si preoccupa della sua salute e del fatto che fuma troppe sigarette, ricevendo in cambio dal padre solo qualche commento burbero. Per due volte nel film è costretta a fare la valigia e trasferirsi: la prima volta accade quando muore la madre, e lei si trasferisce dal padre; la seconda è quando decide di lasciare l'appartamento in cui vive con suo padre per andare a vivere nell’orfanotrofio, affermando che là vivrà più comoda in quanto l’istituto si trova più vicino alla scuola. Forse la verità è che casa loro è sempre piena di gente e lei non riesce a studiare, oltre al fatto che è alquanto infastidita dalla presenza della giovane studentessa che va e viene troppo spesso e possiede persino una copia delle chiavi di casa.

 

Il film ritrae gli ultimi anni della vita di Władysław Strzemiński, quando il pittore, tra i fondatori dell’accademia e amatissimo dagli studenti, a causa del suo palese dissenso nei confronti del regime comunista si vede prima privato della possibilità di insegnare, e poi espulso da quest’ultima finendo in disgrazia per poi morire di tubercolosi.

 

Andrzej Wajda negli anni ’40 aveva iniziato la sua carriera come pittore, e fu proprio un pittore a fargli prendere la decisione di abbandonare questa strada. Questi in realtà non era Strzemiński ma Andrzej Wróblewski, pittore figurativo attivo in Polonia negli anni ’40 e ’50. Pare che il Nostro, dopo aver visto la serie delle Fucilazioni di quest’ultimo, abbia deciso di darsi al cinema.

 

La serie delle fucilazioni ha in effetti un incredibile impatto visivo che sembra aver influenzato lo stile visivo di Wajda in alcune scene dei suoi film, come se quest’ultimo volesse in qualche modo riprodurle sulla pellicola: gli esempi più famosi sono le morti disarticolate del comunista sulla soglia della chiesa e di Maciek in Cenere e Diamanti, e i colori e l’atmosfera intorno ai cadaveri di Katyń: in tutto ricordano le vittime dei quadri di Wróblewski, contorte e innaturali negli istanti subito precedenti o subito successivi alla morte. Le tele stesse del pittore appaiono anche nel film Tutto in vendita.

 

Tuttavia Wajda non riesce a fare un film su Wróblewski. Su di lui gira solo un documentario, proiettato a Gdynia quest’anno, intitolato Wróblewski według Wajdy (in italiano: Wróblewski secondo Wajda). Forse, rimasto insoddisfatto il suo desiderio di girare un film su un pittore, ha deciso di dare vita ad Afterimages.

 

Il titolo si riferisce allo stile che caratterizzò una determinata fase dell’opera di Strzemiński, che affermava di dover mettere sulla tela non le immagini realistiche, ma le “immagini residuali” che la mente vede quando vive o ricorda. In una sua serie di opere, intitolata appunto Powidoki (in italiano: Immagini residue), il pittore dipinge alcuni ritratti come fossero visti da un occhio accecato dal sole.

 

Wajda fa anche disegnare dei bellissimi titoli di coda con una grafica coloratissima in stile Strzemiński, così come è bellissima e coloratissima la riproduzione della stanza degli artisti plastici. Il film merita davvero, anche se a mio parere la prerogativa di film di Wajda più geniale degli ultimi tempi va senza dubbio attribuita a Wałęsa, per la velocità del montaggio, la modernità della musica e per la “giovinezza” della regia in generale, contrapposta all’esperienza nel cinema di un regista che lavora da più di mezzo secolo.

 

Dal suo “trono” Wajda ha scherzato sul fatto che 90 anni non sono tanti, e nemmeno 40 film. Lui si sente all’inizio della carriera e ha ancora molti film da fare. Posso solo dire che di questo siamo molto contenti… Infondo Manuel De Oliveira ha fatto l’ultimo film che aveva 104 anni![1]



[1] Questo testo è stato scritto qualche giorno prima della morte di Andrzej Wajda, avvenuta il 9 ottobre 2016.

[2] Panny z Wilka, film di Andrzej Wajda del 1977.

 

Zaćma - Cecità e legge del contrappasso


Regia: Ryszard Bugajski

 

Protagonista del film Zaćma (in italiano: Cataratta) di Ryszard Bugajski è Julia Brystigerowa, personaggio storico realmente esistito che lavorava nei servizi di sicurezza durante lo stalinismo. Si era impegnata con particolare zelo nella lotta contro la chiesa e aveva fatto arrestare diversi leader religiosi. Era una convinta sostenitrice del motto marxista secondo cui la religione è l’oppio dei popoli e oltre a dirigere l’operazione per l’arresto del Cardinale Stefan Wyszyński aveva supervisionato l’arresto di ben 123 tra preti e leader religiosi. L’avevano soprannominata Krwawa Luna, ovvero Luna la Sanguinaria.

 

Aveva persino accusato il suo stesso collega Józef Różański di crimini contro il socialismo per aver accettato dall’ambasciata del governo polacco in esilio un chilo di riso per salvare sua figlia dalla fame. Lo stesso Józef Różański fu il capro espiatorio su cui la Brystigerowa scaricò successivamente tutte le colpe relative al trattamento disumano riservato ai suoi prigionieri: in questo modo, mentre in Polonia si cominciavano a condannare i crimini stalinisti e i loro perpetratori, era riuscita a farla franca.

 

Secondo alcune testimonianze, la Brystigerowa aveva frequentato a lungo un centro per non vedenti e si era poi convertita al cristianesimo e fatta battezzare poco prima di morire. Il regista sceglie dunque di ritrarre proprio questo momento della vita del personaggio, cercando di indovinarne le motivazioni e le dinamiche di cambiamento.

 

In una delle prime sequenze una donna, Julia Brystigerowa, arriva nel distretto di Laski vicino a Varsavia, al Centro Educativo per bambini non vedenti, perché vuole avere un colloquio con il Cardinale Stefan Wyszyński che in quei giorni si trova lì.

 

Distinta, truccata e pettinata di fresco, ma con una pistola nella borsetta e lo sguardo severo, la donna si è presentata col suo nome da nubile, forse proprio per non attirare troppo l’attenzione di persone che non potrebbero che odiarla o come minimo giudicarla un’aguzzina: probabilmente si sente un pesce fuor d’acqua in quell’ambiente, ma non lo dà a vedere.

 

Fuori è una giornata soleggiata e luminosa, e quando la donna entra nell’edificio rimane accecata dall’oscurità per contrasto: nel centro stanno cercando di risparmiare elettricità per sfruttare il più possibile i fondi disponibili allo scopo di aiutare i bambini non vedenti.

 

Va a sbattere così contro lo stipite della porta attraverso cui Suor Benedetta la sta accompagnando alla cappella dell’edificio, dove Julia si accende subito una sigaretta. Inizia dopo qualche minuto una conversazione con padre Cieciorka. Questi è cieco, ha una brutta cicatrice sull’occhio e non sopporta l’odore del fumo. Per una strana simmetria anche Julia ha, a causa del colpo contro lo stipite, un segno su un sopracciglio e ha difficoltà a vedere nella penombra della cappella.

 

Per buona parte del film la protagonista aspetta che il Cardinale le dia udienza, ma questo momento viene continuamente rimandato ed è costretta a pernottare nel centro. In quest’occasione incontra diversi personaggi e difficoltà che la portano a ragionare su se stessa e a rivivere con forti sensi di colpa il suo passato sanguinario. Questi elementi sembrano quasi forzati da uno strano destino ed acquisiscono una valenza di prove da superare al fine di essere psicologicamente pronta e consapevole di sé quando finalmente potrà avere il suo colloquio. Allo spettatore viene il dubbio che siano addirittura gli stessi abitanti del centro a sottoporla intenzionalmente a queste prove.

 

In uno di questi episodi la protagonista va al bar a mangiare qualcosa e viene fermata dalla polizia che la perquisisce in modo psicologicamente violento e fisicamente ambiguo, ma allo stesso tempo con fare innaturale, quasi forzato: i poliziotti sembrano mettere in scena la perquisizione appositamente per attuare una sorta di legge del contrappasso.

 

I momenti in cui i sensi di colpa prendono il sopravvento sono simbolicamente rappresentati con sequenze quasi oniriche in cui Julia si ritrova ai tempi in cui era in servizio in una cella con uno dei suoi prigionieri che sosteneva di chiamarsi Gesù Cristo. Il prigioniero viene rappresentato dal regista in una luce mistica, proprio come se gli occhi dell’aguzzina lo vedessero come un vero Gesù Cristo. Lo stesso prigioniero, in un altro flashback della protagonista, viene chiamato a testimoniare contro di lei dopo la caduta dello stalinismo: non la riconoscerà come sua torturatrice perché troppo malconcio, permettendole così di farla franca.

 

L’attrice, Maria Mamona, è la moglie del regista. Secondo quanto ha raccontato quest’ultimo alla conferenza stampa, in famiglia hanno iniziato a parlare di questo film già da prima di girare Circuito chiuso[1]. “Maria ha iniziato quindi a calarsi nel personaggio fin da allora”, dice scherzosamente il regista, “e in questo modo io ho dovuto fare colazione con Krwawa Luna tutte le mattine da cinque anni a questa parte”.

 

L’attrice che interpreta Suor Benedetta, invece, è nella vita reale una delle migliori amiche di Maria Mamona e afferma di essersi alquanto preoccupata di non riuscire a trasmettere al pubblico la differenza e il distacco tra le due donne. Forse anche grazie all’amicizia reale tra le attrici, il rapporto tra i due personaggi, tuttavia, risulta molto ambiguo e interessante. Si scopre in fatti che i due personaggi, per quanto diversi e distaccati, avevano in realtà un passato in comune: si conoscevano dai tempi dell’università, erano entrambe ebree cresciute nello stesso ambiente, con simili esperienze e tipo di formazione.

 

Esiste un altro film del 1982 in cui si affronta in modo incredibilmente vivido il tema della tortura e della violenza di un regime totalitario. Questo film, che si intitola Interrogatorio, è dello stesso Bugajski e analizza questa realtà dal punto di vista della vittima.

 

La violenza delle immagini risulta sicuramente più forte e realistica in questo suo precedente film, mentre è più metaforica nelle scene ovattate e oniriche dei flashback di Zaćma. Maria Mamona, seppur bravissima, non può in alcun modo essere paragonata alla Krystyna Janda di Interrogatorio, anche solo per il contesto in cui quest’ultima ha recitato, clandestinamente e proprio durante la dichiarazione dello stato di guerra in Polonia, in una situazione che sicuramente avrà contribuito non poco alla creazione del suo personaggio.

 

Ma Bugajski non si fa intimidire dalla sua precedente opera degli anni ’80 e dal peso del valore ad essa attribuito. È probabilmente più facile analizzare le ragioni di una vittima, piuttosto che quelle di un carnefice che si pente delle proprie azioni, ma il regista affronta con simile profondità psicologica le due pellicole. E non solo, con gran classe non si limita a scambiare punti di vista di vittime e carnefici…

 

In Interrogatorio, infatti, Janus Gajos incarna il terribile Major Zawada „Kąpielowy”[2], chiamato così perché torturava le sue vittime legandole sotto un getto di acqua gelata per notti intere. In Circuito chiuso, invece, lo stesso Gajos è l’antagonista ”cattivo” che rovina la vita a un gruppo di intraprendenti bravi ragazzi. In Zaćma, invece, Gajos dà vita al personaggio di padre Cieciorka, vittima che ha perso la vista a causa delle passate torture ordinate da Julia Brystigerowa: il volto del carnefice dei film precedenti diventa dunque quello sfigurato della vittima dell’ultimo in un interessante ribaltamento di ruoli. Di nuovo la legge del contrappasso?  



[1] Układ zamknięty, penultimo film di Ryszard Bugajski del 2013.

[2] Major Zawada „Kąpielowy” tradotto in italiano potrebbe suonare come Maggior Zawada “Del Bagno”.

 

Wołyń


Regia: Wojciech Smarzowski

 

La Volinia è una regione storica di confine tra Ucraina e Polonia, uno degli insediamenti slavi più antichi d’Europa ora appartenente all’Ucraina. Ai tempi dell’occupazione tedesca e delle leggi razziali, in quest’area vi fu un vero e proprio massacro da parte dell’esercito insurrezionale ucraino (UPA) nei confronti dei polacchi. In tale triste occasione la maggior parte delle vittime furono donne e bambini e i metodi dell’UPA furono particolarmente cruenti. Morirono in quest’area dalle 35.000 alle 60.000 persone, sommate alle 25-40.000 che ebbero lo stesso destino nella Galizia orientale[1].

 

Le morti erano direttamente collegate alle politiche di Stefan Bandera, attivista a capo del movimento nazionalista ucraino. In onore di quest’ultimo nel 2007, quindi in tempi recentissimi, è stata collocata una statua a Lviv: quest’azione ha scatenato non poche polemiche. La statua si trova a poche decine di metri dal luogo in cui, il 19 novembre del 1942, fu ucciso Bruno Schulz per mano del nazista tedesco Felix Landau. Lo scopo dei Banderisti era quello di purificare la razza per la futura creazione dello stato ucraino, e la messa in atto di questo obiettivo si tradusse in una vera e propria strage della minoranza polacca presente nell’area e nel tentativo di cancellare di ogni traccia di essa. Spesso la stessa chiesa ortodossa supportava le azioni dell’UPA.

 

La situazione storica in cui si colloca questo film è piuttosto simile a quella di Róża, film del 2011 che, come Wołyń, è stato diretto da Wojciech Smarzowski. Róża è ambientato dopo la fine della seconda guerra mondiale nella Masuria, ex zona di confine tra Prussia e Polonia, annessa alla Polonia proprio in occasione della spartizione dopo la seconda guerra mondiale. Anche in questo caso si scatenò una vera e propria guerra civile in cui le popolazioni masure si trovarono a subire ogni sorta di violenze da parte dei polacchi, i quali consideravano queste comunità come tedesche perché non parlavano bene la lingua locale e per la loro fede luterana.

 

Ma le analogie tra queste due pellicole a mio parere finisce qui. Róża è girato in uno stile realistico, con luce scarna da telefilm poliziesco italiano e recitazione piuttosto inespressiva; le scene di violenza sono, come in Wołyń, impietose e cruente, ma hanno un che di ostentato, gratuito e grottesco. Il film, nonostante il successo che lo ha contraddistinto e gli innumerevoli premi che ha vinto, resta a mio parere un’opera immatura, in cui si scorge troppo chiaramente la volontà del regista di sconvolgere chi guarda, un po’ come nei suoi film “goliardici” precedenti e successivi sull’alcolismo[2]. Wołyń, al contrario, è un film molto patinato, con luci a tratti mistiche, scene dal carattere onirico e allucinato accompagnate da una colonna sonora fatta di suoni angoscianti che ricordano Szyfry (in italiano: Codici cifrati), Il manoscritto trovato a Saragozza o Il sanatorio all’insegna della Clessidra di Wojciech Jerzy Has.

 

Non è la prima volta che Wojciech Smarzowski ci ricorda Wojciech Jerzy Has. Probabilmente, se qualcuno glielo chiedesse, il regista di Wołyń negherebbe ogni collegamento, considerato il modo scontroso e provocatorio con cui risponde alle domande. Tuttavia, lo stesso Pod Mocnym Aniołem sembra citare di continuo Pętla (in italiano: Il cappio), con le sue scene ripetute in cui predomina il moto circolare, dove l’inizio è uguale alla fine e questo non lascia troppo da sperare.

 

Gli attori, Smarzowski sembra portarseli dietro, un po’ come il nostro Salvatores, anche se qui la giovane e bellissima protagonista è incarnata dalla ventiquattrenne Michalina Łabacz alla sua prima apparizione sul grande schermo. Per questo film ha vinto a Gdynia il meritato premio per la miglior attrice debuttante. La fotografia, perfetta e patinata, è di Piotr Sobociński junior, degno figlio del Piotr Sobociński che ha diretto gli episodi III e IX del Decalogo, Film Rosso di Krzysztof Kieślowski e La stanza di Marvin. Non a caso Wołyń ha vinto a Gdynia il premio per la miglior fotografia, mentre il suono, pervaso da note basse e vibranti, espande all’ennesima potenza il tono allucinato del film e avrebbe forse meritato qualche riconoscimento.

 

Sullo sfondo della tragedia si snoda una storia d’amore impossibile e l’interminabile inferno di una famiglia costretta a vivere continuamente nel terrore e che viene giorno dopo giorno decimata dalla spirale di violenza che travolge la sua vita.

 

Il film inizia con un matrimonio tra un ragazzo ucraino e una ragazza polacca, in cui sono rappresentate alcune usanze e giochi caratteristici della cultura di quel tempo e di quel luogo: giochi che già di per sé sono violenti e anticipano in qualche modo la tragedia imminente: la sposina, per seguire la tradizione, poggia la testa sui gradini della sua futura casa e con l’accetta le viene tranciata simbolicamente la sua spessa treccia di capelli neri. Durante gli scontri successivi, la stessa ragazza verrà decapitata con un’accetta sulla soglia di casa sua subito dopo aver assistito all’uccisione del suo bambino.

 

La protagonista, Zosia, partecipa a questa festa di matrimonio e riesce anche a sedersi per prima sulla sedia della sposa, tradizione che, come per il nostro lancio del bouquet, la indica come prossima ragazza che si sposerà. Sogna di sposarsi con Petro, bellissimo ragazzo della sua età. Ma i piani di suo padre sono diversi: viene data in sposa a un uomo molto più vecchio di lei, Maciej, e si trova a doverne crescere i figli, Franek, un bambino di una decina d’anni, e Marysia, che ha quasi l’età di Zosia.

 

Iniziano i massacri. Zosia, incinta del marito, o più probabilmente di Petro, viene fatta salire su un treno con tutta la famiglia per essere deportata. Petro salverà lei e i figli di Maciej, e a causa di questo perderà la vita. Zosia si troverà da sola a partorire, e poi dovrà difendere se stessa, i ragazzi e suo figlio appena nato, Jasiek, fino al ritorno del marito. Sarà presto costretta a sopportare la vista della testa di Maciej recapitatale dal postino per un regolamento di conti con un vicino che rubava loro le galline, dovrà assistere alla morte di Franek, che verrà bruciato vivo, dovrà vedere la sua casa bruciare e fuggire con il suo bambino in braccio senza portarsi null’altro che i vestiti che ha addosso. Patirà la fame, dovrà camminare in mezzo a centinaia di cadaveri, dovrà dimostrare di essere polacca e fingere di essere ucraina a seconda della situazione e vedere morire, oltre alla sua famiglia, tutti i suoi conoscenti.

 

Il piccolo Jasiek, dal canto suo, sembra quasi un essere sovrannaturale. Deciso e risoluto, per quanto piccolo, a volte sembra essere lui a guidare la madre in quel labirinto di orrore, capisce per istinto quando deve parlare in ucraino per sopravvivere e, quando la madre è esausta e si sta lasciando morire nel bosco, decide di allontanarsi e farsi vedere sulla strada affinché uno sconosciuto li salvi (forse?) portandoli via su di un carretto.

 

L’originalità del film sta nel linguaggio utilizzato dal regista: pur trattandosi di una storia ambientata in un momento storico preciso, si allontana alquanto dall’estetica documentaristica di Róża. Smarzowski  preferisce girare il film come fosse un vero e proprio horror. Si assiste quindi a ogni genere di orrore: si vedono i ribelli ucraini spellare vive le loro vittime, si vedono correre bambini avvolti da fascine di grano secco in fiamme e donne incinte pugnalate a morte. Sembra quasi di assistere alla proiezione di un Inglorious Basterds di Tarantino privato del lato ironico della situazione.

 

La sequenza più bella è forse un montaggio alternato veloce, simile ad alcune sequenze di Pod Mocnym Aniołem, in cui viene ripreso Bandera nel bosco che, con grande carisma, istiga i suoi uomini alla strage. Come intermezzi, si inseriscono scene in cui alcuni esponenti delle diverse chiese, ortodossa e cattolica, predicano la pace, mentre altri, al contrario, istigano alla violenza.



[1] Vedi alla voce Volhynia di Wikipedia inglese, come visualizzata a ottobre 2016.

[2] Vedi Drogówka e Pod Mocnym Aniołem rispettivamente del 2013 e del 2015.

 

Zjednoczone stany miłości


Regia: Tomasz Wasilewski

 

Zjednoczone stany miłości ha vinto nel 2016 l’orso d’argento per la miglior sceneggiatura al festival di Berlino. La Berlinale è sempre una garanzia, e ha spesso un debole per i film polacchi, bisogna dirlo. Solo negli ultimi anni Małgorzata Szumowska si è portata via nel 2013 il Teddy Award e nel 2015 l’orso d’argento per Body/Ciało.

 

Tuttavia in questo caso questo premio lascia interdetti. Prima di tutto, è proprio la sceneggiatura che a tratti sembra mancare di qualcosa: nella prima sequenza i personaggi sono tutti riuniti nella stessa stanza, a tavola. La scena è ripresa a livello del tavolo in un’inquadratura strettissima, quasi claustrofobica, piuttosto atipica e allo stesso tempo alquanto riuscita. Si sente alla radio la notizia della caduta del muro di Berlino.

 

Nelle sequenze successive vengono ritratte le vite di quattro donne alle prese con l’amore. Ma finché non si arriva alla terza storia, quella di Renata, non si capisce bene se si tratti di flashback o di avvenimenti avvenuti dopo l’annuncio alla radio.

 

In molte recensioni il film viene descritto come la storia di quattro donne che devono cavarsela nella difficile realtà in evoluzione dopo la caduta del muro. In realtà la prima, Agata, si innamora di un prete molto più giovane di lei pur essendo sposata, la seconda, Iza, è  l’amante trascurata di un dottore appena rimasto vedovo che non è pronto a impegnarsi con lei mentre la quarta, Marzena, è una ragazza che ha il marito lontano e conduce una vita piuttosto dissoluta cercando di sfondare come fotomodella.

 

Difficile dire quanto l’evento storico alla base del film influisca in tutto questo, in realtà sembra non farlo affatto. L’unica cui è davvero cambiata la vita è la più anziana delle quattro, Renata, che è un’insegnante di letteratura russa che viene licenziata per essere sostituita da una di inglese. È appunto quando si assiste al suo licenziamento che si capisce che probabilmente la sequenza iniziale a tavola avviene, cronologicamente parlando, prima di tutte le altre. E il fatto che tutte e quattro le donne si trovino a tavola insieme all’inizio ma nel resto del film sembrino non conoscersi affatto, non fa che confondere ulteriormente le idee.

 

Insomma, uno dei punti deboli di questo film è proprio, a mio parere, la sceneggiatura. Non che la trama debba per forza avere un’importanza fondamentale, ma se la trama c’è, deve pur in qualche modo stare in piedi, o, nel caso in cui lasci dei dubbi, anche queste lacune devono avere un senso, devono essere in armonia con il film.

 

Certo, gli attori sono bravissimi, e non hanno vita facile in un film così scarno: le luci sono impietose, il colore predominante è un bianco-grigiastro che rende lo squallore delle vite dei personaggi ancora più evidente. La musica è quasi assente, non c’è nessun panorama che non sia triste e desolato, e quasi tutto è girato in interni. Il film si regge solo su lunghe, interminabili riprese dei personaggi e delle loro azioni, ed è quindi fondamentale che gli attori siano abbastanza espressivi da comunicare qualcosa a chi guarda.

 

Non mancano nudi scabrosi, come quelli delle signore anziane che fanno Acqua Jim: nudi per lo più inutili nell’economia della storia e per questo apparentemente buttati lì sullo schermo per sconvolgere un po’ lo spettatore. Le riprese, volutamente, sono girate da punti di vista che non donano per nulla né ai corpi né ai visi degli attori, che sembrano tutti molto più brutti di quello che sono.

 

Tomasz Wasilewski inizia la sua carriera come assistente alla regia della Szumowska in 33 scene di vita nel 2008, e si vede  che quest’ultima l’ha influenzato non poco: il gusto dello scabroso, il tema ricorrente del sesso, l’affrontare argomenti scomodi per non dire “scivolosi” senza prendere una posizione definita, la presenza immancabile di scene forti, troppo esplicite e disturbanti… ma all’allievo, purtroppo, manca la genialità registica della maestra.

 

Il primo film con Wasilewski alla direzione è W sypialni (in italiano: In camera da letto), forse il suo miglior film, almeno finora. In esso una donna trascurata e forse, non si sa, tradita dal marito vaga per Varsavia senza un soldo, rubando cibo nei supermercati e contattando uomini su internet cui promette prestazioni sessuali, ma che poi addormenta con sonniferi allo scopo di poter passare la notte sotto un tetto e lavarsi.

 

Il secondo film di Wasilewski è Płynące wieżowce (in italiano: Grattacieli fluttuanti), su un ragazzo fino a quel momento eterosessuale che si innamora di un coetaneo omosessuale. La storia d’amore, piuttosto goffa e maldestra tra l’altro, viene presto turbata dal fatto che i genitori del ragazzo non potrebbero mai capirla e accettarla e dal fatto che il ragazzo in realtà è contemporaneamente fidanzato con una ragazza. Il primo a non accettare la propria storia, a dir la verità, sembra proprio lui stesso.

 

Nell’ambiente circostante regna l’omofobia, ma nulla farebbe pensare al fatto che questo possa causare una tragedia... invece il film, senza il minimo preavviso, termina con una sequenza in cui il ragazzo esce di casa e viene ucciso da alcuni teppisti omofobici, lasciando lo spettatore per lo meno interdetto e non chiarendo affatto quale sia il vero messaggio che il regista avrebbe voluto dare.

 

In Zjednoczone stany miłości c’è un po’ lo stesso problema: di cosa parla il film? Della mancanza di punti di riferimento delle quattro protagoniste? Perché il regista ambienta le vicende sin da subito in un momento storico così preciso, tramite una scena che sembra ideata apposta per dirci quale sia questo momento... per poi raccontarci storie che potrebbero essere accadute ovunque e in qualunque momento e non per forza in Polonia tra gli anni ’80 e ’90? Il messaggio è: “guarda che danni ha fatto il comunismo”? Oppure: “si stava meglio quando c’era il comunismo”? O forse vuole farci pensare che sia rimasto tutto uguale?

 

Insomma, il film nella prima sequenza, che è poi la più bella del film, promette benissimo, ma alla fine non mantiene. Ma, come ho già detto, di solito la Berlinale è una garanzia, quindi è possibile che Wasilewski  diventi in futuro un grande regista e che sia stata io a non vederne le potenzialità.